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Reportage scritto e pubblicato per la Rivista Missioni Consolata // Torino – Aprile 2022

Tra i profughi palestinesi e siriani in alcuni dei molti campi presenti in un paese attraversato da una profonda crisi sociale ed economica che pesa anche sulla vita dei rifugiati.
Accompagnato da personale della Wpa (Women’s program association), da Beirut scendo verso Tyre (l’antica Tiro dei Fenici). Qui ci sono tre campi profughi: Rashidiye, Burj Shamali e El Buss.

Come per tutti i campi, l’accesso a Rashdiye è permesso solo attraversando un checkpoint presidiato da militari armati e dotati di mezzi blindati. Il campo è circondato da muri di recinzione sormontati da filo spinato. Per problemi di sicurezza posso visitare solo la sede della Wpa. Alcune donne siriane mi raccontano della loro fuga dalla guerra e delle enormi difficoltà che ancora oggi affrontano a causa delle discriminazioni che il governo libanese attua nei loro confronti. Diritti negati soprattutto per le cure mediche dei loro bambini a volte affetti da patologie che richiederebbero anche un ricovero ospedaliero. Durante la riunione, sentiamo diversi colpi di arma da fuoco esplosi a poca distanza. I responsabili di Wpa mi chiedono di abbandonare rapidamente il campo.

Campo di Burj Shamali

Ci muoviamo alla volta del campo di Burj Shamali. Qui, come da prassi comune ovunque, ogni rifugiato riceve 17 dollari al mese dall’Unrwa, del tutto insufficienti per la sussistenza e per garantire ai bambini l’istruzione e il diritto di frequentare la scuola. Manal mi invita a visitare la sua casa dove vive con i suoi quattro figli dopo essere fuggita senza il marito, catturato e probabilmente ucciso dai militari in Siria. La donna era un’insegnante e oggi vive una vita di stenti, priva di riconoscimento dello status di rifugiata e alle prese con una malattia del sangue di suo figlio minore di nome Mostafah. Incontro decine di famiglie. Quasi tutte prive della figura paterna. Ognuna di esse porta con sé la testimonianza di una vita distrutta dalla guerra e di un dolore passato che si lega alle difficoltà presenti.

Campo di El Buss

El Buss è uno dei campi più grandi del Libano. Al centro educativo del Wpa siamo accolti dalle donne e dai bambini che seguono le attività formative pomeridiane. I bambini sono attratti dalla mia macchina fotografica e così improvviso un corso di fotografia accelerato. Mentre i piccoli prendono confidenza con la mia reflex, una bambina attira la mia attenzione per la sua spontaneità e per il fatto per porta un rosario attorno al collo. Il suo nome è Asia, ha undici anni ed è l’unica che ho visto manifestare apertamente la sua fede cristiana (foto qui a destra).

Frequentare le attività post scolastiche ha un costo mensile di 10mila lire libanesi (circa 7 €) per bambino, ma la maggior parte delle famiglie non riesce a sostenere questa spesa.

Nel campo di El Buss incontro una coppia di anziani palestinesi che mi invita nella propria abitazione. I due sono in compagnia di figli e nipoti, e mi raccontano la storia drammatica del loro arrivo in questo campo. La donna (nella foto qui a destra) è arrivata nel 1948, aveva dodici anni ed era fuggita a piedi nudi, da sola, per raggiungere il Libano. Nel campo ha incontrato quello che sarebbe diventato suo marito, anch’egli arrivato a El Buss in condizioni disperate.

Campo di Wavel

Situato nella regione orientale del Libano al confine con la Siria, il campo profughi di Wavel era originariamente un sito dell’esercito francese nella valle della Beqaa. Ha fornito rifugio ai palestinesi nel 1948 e l’Unrwa ne ha assunto la responsabilità nel 1952. Grazie alla lontananza da Beirut, i controlli da parte dell’esercito libanese per l’accesso sono meno severi che altrove.

Qui l’istruzione viene fornita a circa mille studenti della Secondary School e sono presenti due asili entrambi gestiti da organizzazioni non governative locali. A causa della posizione remota del campo, l’accesso ai servizi sanitari è difficile e costoso.

Per la vicinanza alla Siria, ci sono migliaia di profughi siriani e palestinesi-siriani. Questi ultimi sono palestinesi che erano rifugiati in Siria e che oggi si trovano a essere nuovamente rifugiati in Libano. Molti di loro mi raccontano che nell’area intorno a Wavel ci sono decine di campi non ufficiali e fuori dalla giurisdizione libanese e dagli aiuti ufficiali di Unrwa.

Una delle famiglie accetta di farmi visitare la propria casa. Il filo conduttore dei loro racconti è sempre la guerra in Siria. Fuggiti dalla guerra, i due genitori con i quattro figli si sono rifugiati in Libano. La casa ha due stanze molto piccole. Durante l’inverno sono costretti ad installare un sistema molto precario di riscaldamento a carbone che scarica all’interno delle due stanze gran parte dei fumi della combustione. La donna non ha un lavoro stabile e l’unico sostentamento per i suoi figli è quello che arriva da Unrwa, appena sufficiente per sfamarli, ma non per la scuola. Il loro desiderio più grande, come per tutti gli altri rifugiati che ho incontrato, è quello di raggiungere un qualsiasi paese europeo. Con ogni mezzo.

Quale futuro

Il giovane scrittore siriano palestinese Bassam Jamil, incontrato nel campo di Wavel, mi spiega che i rifugiati sono convinti di essere tenuti in ostaggio in modalità indefinita senza una seria e concreta intenzione di risolvere la loro situazione. Una condizione di immobilità priva di ogni diritto umano. Ciò che più manca loro è di avere un’opportunità per dimostrare di poter emergere, di essere in grado di costruire il proprio futuro attraverso un lavoro riconquistando la loro dignità. Non hanno bisogno di sussidi. Hanno bisogno di opportunità.