Reportage scritto e pubblicato per la Rivista Missioni Consolata // Torino – Agosto-Settembre 2020
Burj El Barajneh è uno dei campi profughi più pericolosi del Libano. Dove rifugiati palestinesi e siriani sono «incarcerati» e abbandonati senza speranza.
Entrato nel campo da una delle poche strade principali, mi ritrovo in un labirinto di vicoli bui. Allungando le braccia posso toccare gli edifici su entrambi i lati. I vicoli creano un senso di intimità e di comunità. Camminando tra le viuzze, posso ascoltare conversazioni, musica e il suono dei televisori. La notizia dell’arrivo di uno sconosciuto corre velocemente. Insieme al senso di comunità è forte anche il senso del controllo sociale.
Palestinesi e siriani
Burj El Barajneh è un campo profughi palestinese situato nella periferia Sud di Beirut, la capitale del Libano. Fu fondato nel 1948 dopo la «Nakba», termine che in lingua araba significa «catastrofe», quando i palestinesi furono costretti a fuggire dalle loro case e dai loro villaggi. Costruito su un chilometro quadrato di terra per ospitare 10mila rifugiati, oggi ne ospita circa 50mila, compresi alcune migliaia, soprattutto donne e bambini, fuggiti dalla guerra in Siria.
Burj El Barajneh è un campo profughi a lungo termine. Le strade sono vicoli drappeggiati da un groviglio di fili elettrici e tubature dell’acqua. I bambini giocano e vanno a scuola sotto questo «tetto» pericolosamente intrecciato sopra le loro teste e molto spesso ad altezza uomo. Ci sono decine di decessi ogni anno per elettrocuzione.
L’accesso al campo
Gli stranieri hanno bisogno di un permesso speciale per entrare nel campo. La Ong palestinese che mi ha invitato, me lo ottiene facilmente dal Mukhãbarãt, il servizio di intelligence dell’esercito. Questo mi permette di muovermi liberamente in entrata e uscita. Il sistema dei permessi scoraggia i curiosi e aiuta le autorità a monitorare la popolazione. Nello stesso tempo fa percepire il campo come una grande prigione a cielo aperto nel bel mezzo di una città cosmopolita come Beirut. Controlli di accesso rigorosi e sorveglianza costante riducono le visite di amici e familiari e ricordano ai rifugiati che la loro vita non è interamente loro.
Crisi senza fine
In Libano, la crisi (o meglio la lunga serie di crisi) è in atto dal 1948. Più di un milione di siriani e 450mila palestinesi vivono in dodici campi ufficiali e centinaia di insediamenti informali. I campi più antichi come Burj El Barajneh, una volta considerati temporanei, ospitano rifugiati di terza e quarta generazione. Non si tratta di campi tendati, ma di spazi di cemento e asfalto, agglomerati urbani in un continuo stato di emergenza i cui abitanti vivono in condizioni precarie e in piccoli appartamenti sovrapposti l’uno sull’altro.
Secondo l’Agenzia delle Nazioni unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (Unrwa), due rifugiati palestinesi su tre in Libano vivono in condizioni di povertà. Circa il 60% dei rifugiati è disoccupato e i posti di lavoro che ricoprono sono quasi sempre non qualificati. A causa dell’insufficiente accesso all’istruzione e alle poche opportunità di crescita personale, è estremamente difficile per loro ottenere le competenze di cui hanno bisogno. Il Libano proibisce ai rifugiati palestinesi di lavorare nelle 72 professioni più importanti, dalla medicina all’ingegneria. Molte famiglie fanno affidamento sui fondi di parenti all’estero e i giovani sognano di emigrare. Questa situazione rende i rifugiati molto vulnerabili e ciò è particolarmente vero per le donne all’interno del campo, che affrontano abitualmente discriminazioni di genere e trovano particolarmente difficile ottenere opportunità di lavoro retribuito.
Campo di «battaglia»
Il campo è disseminato dei segni di battaglie e guerriglie passate. Proiettili e fori da armi pesanti fanno da monito sulle facciate di decine di edifici, mentre poster di leader politici e «martiri» coprono pareti come cartelloni pubblicitari. Molti murales raffiguranti giovani uomini armati, insieme a emblemi che indicano alleanze e lealtà, segnano i confini territoriali delle diverse fazioni politiche. Simboli di Fatah, Hamas e bandiere gialle di Hezbollah dominano nel campo e ancora oggi ci sono ovunque immagini di Yasser Arafat, dai poster retrò del giovane leader palestinese con gli occhiali da sole ai murales del presidente, capo della Anp. Una preoccupazione recente è la possibilità che Da’esh possa infiltrarsi e minacciare l’equilibrio della comunità, poiché il campo ospita sia nuclei sciiti palestinesi che cristiani.
Le donne del campo e il progetto Soufra
Le immagini di queste pagine fanno parte di un più ampio reportage realizzato nel maggio 2018 per documentare la condizione di vita di un gruppo di donne del campo e, in particolare, un progetto legato alla loro formazione ed emancipazione tramite la cucina. Il reportage è stato realizzato in collaborazione con la Ong palestinese Women Program Association (Wpa) e con quella svizzera Cuisine sans frontières.
Mariam Shaar è nata da genitori palestinesi all’interno del campo ed è qui che attualmente vive. È un’assistente sociale da quasi vent’anni e dirige la Wpa. Mariam è stata la mia guida. Mi ha ospitato nella casa dei suoi genitori in un appartamento del campo. Ha raccontato la sua storia, quella del suo popolo, la tragedia della deportazione prima e dei rifugiati siriani poi; le guerre, le speranze, i suoi sforzi per aiutare le donne della comunità.
La Wpa ha filiali in nove dei dodici campi profughi palestinesi in Libano, incluso il campo di Burj El Barajneh. L’organizzazione offre formazione professionale per le donne, microcredito ai membri della comunità e opportunità di impiego attraverso il progetto Soufra, una start up di catering fondata dalla stessa Mariam nel 2013.
Grazie agli investimenti di alcune Ong internazionali, Wpa è riuscita a realizzare un film documentario sulla vita di Mariam, diretto da Susan Sarandon, che ha permesso di finanziare il primo progetto sostenibile di food truck in Libano: un’unità di ristorazione del progetto Soufra gestito completamente da donne palestinesi. «I rifugiati come noi sanno che la carità non è abbastanza. Ne siamo stanchi. È necessario fare in modo che le persone, le donne del campo, siano autosufficienti. Bisogna insegnare loro come pescare. Questo è ciò che il progetto Soufra e il nostro food truck rappresentano per noi».
Sono questi il pensiero e la filosofia che spingono Mariam a lottare quotidianamente per le donne del campo. A seguito delle richieste della comunità e al supporto di numerose organizzazioni internazionali, la Wpa è anche riuscita ad aprire nel campo di Burj El Barajneh la scuola materna Nawras che offre l’opportunità di istruzione a bambini palestinesi e siriani.