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Il fotografo umanitario: testimoniare gioie e tristezze dell’umanità

Articolo scritto e pubblicato sul Blog I Viaggi di Dan // Torino – Luglio 2019

Molti anni fa stavo lavorando in India e come in tutti i miei viaggi avevo con me la macchina fotografica. In tutti i momenti liberi lasciavo il mio albergo per correre nelle vie di Mumbai e catturare immagini di un’umanità calpestata e privata della minima dignità.  

Fu in quegli anni che un amico che lavorava in una ONG indiana mi chiese di utilizzare alcune delle mie immagini scattate in India per documentare il suo lavoro sul campo. Una sera in un ristorante di Pune (Maharashtra) mi disse che a suo avviso avrei dovuto lasciar perdere il mio lavoro e iniziare a viaggiare per il mondo a scattare fotografie e produrre ritratti che generassero emozioni come quelle che lui provava davanti alle mie immagini. Sarei dovuto diventare un fotografo umanitario. 

Era una delle prime volte che sentivo quella definizione per un fotografo. Da quel momento quella combinazione di parole, che in inglese tradussi con le parole photographer for a cause” (fotografo per una causa), è diventata una costante ricorrente nella mia mente per diventate nel tempo il focus e l’obiettivo di ogni pensiero legato ad ogni mio viaggio. 

Avevo la consapevolezza che il foto giornalismo fosse lontano anni luce dai miei studi e da quello che avevo sempre immaginato per il mio futuro. Ma nonostante questo ho continuato per anni a coltivare questa passione e il desiderio di documentare l’essere umano nelle condizioni estreme di povertà e disuguaglianza, lontano dal “nostro” mondo fatto di consumismo, comodità e spreco quotidiano. 

Il fotogiornalismo e la fotografia umanitaria

Il fotogiornalismo è un processo di narrazione fatto attraverso l’uso delle immagini. Il mio concetto di fotografia era invece strettamente legato alla passione per i viaggi. Fotoreporter o fotografo umanitario? Il foto giornalismo copre una varietà di narrazioni ed è spesso associato a notizie difficili, a volte in aree di conflitti o in condizioni estreme. Qualche volta mi è capitato di venire in contatto, anche recentemente, con storie di questo tipo. Ma non mi considero un foto giornalista in questo senso. Sono un fotografo documentarista. E’ questa una definizione molto più vicino alla fotografia umanitaria perché nel corso dei miei viaggi e dei miei incarichi mi immedesimo e mi immergo completamente in una storia, in una cultura, in un contesto sociale. Trascorro molte ore, a volte dei giorni interi, all’interno di una comunità. Riesco in questo modo a trasformare i momenti di vita e di quotidianità dei miei soggetti, in racconti per immagini, storytelling, sequenze che danno origine a mostre fotografiche, articoli, racconti di viaggio, workshop fotografici. 

La fotografia di viaggio

Sia il fotogiornalismo che la fotografia documentaria differiscono dalla fotografia di viaggio. La fotografia di viaggio tende a mostrare lo splendore di un luogo, incoraggia l’osservatore a voler andare in quella destinazione. A volte, ho dovuto ritrarre sia le bellezze di una destinazione sia il suo “lato oscuro”; per esempio, mostrando da un lato la maestosità del Taj Mahal in Indiae dall’altro raccontando la storia delle violenze domestiche subite dai bambini negli slum di New Delhi. 

Diventare un fotografo umanitario

Agli occhi del mondo è il lavoro più emozionante e affascinate. Ma in pochi ne conoscono le modalità e il duro lavoro che lo sostiene. È una scelta di vita, fatta di ricerche, studi, notti insonni e lontananza da casa. Sono stato in hotel a 4 e 5 stelle ma ho anche dormito su amache nel mezzo della foresta amazzonica e per terra in alcuni campi profughi.   

Parto mediamente per 7/8 destinazioni ogni anno e spesso sono coinvolto in progetti umanitari non solo per le mie capacità fotografiche, ma perché ho esperienza nell’organizzazione di viaggi in solitaria e di gruppo: costruzione di itinerari, organizzazione dei servizi a terra, prenotazione di voli, vaccinazioni, visti, passaporti. Il mio zaino e le mie attrezzature sono sempre pronte per essere utilizzate. Tengo traccia di ogni dettaglio sulla mia inseparabile moleskine e racconto anche a parole le mie missionifornendo chiare ed esaustive didascalie alle mie foto. 

L’avvento e l’ubiquità dello smartphone e l’uso ormai diffuso delle fotocamere digitali hanno incoraggiato la maggior parte dei viaggiatori a sentirsi come se fossero dei veri fotografi. Ma pensate realmente che cliccare forsennatamente sul pulsante di scatto di una fotocamera o di un display dello smartphone possa trasformare chiunque in uno storyteller o in un fotoreporter? 

Amo quello che faccio. Assisto al peggio e al meglio dell’umanità. Il mio compito è dare voce alle persone. Cerco di concentrarmi sugli individui, raccontare le loro storie, dare loro la possibilità di essere ascoltati e rappresentati dalle mie immagini, sostenere le loro cause.

Per gli aspiranti fotoreporter

Molti giovani inesperti pensano di iniziare la loro carriera e di aver bisogno di farsi un nome come fotografi umanitari avventurandosi in un zone di guerra. L’ho pensato più volte anch’io in passato e anche in tempi più recenti per svariati motivi. Non credo sia la strada migliore e più sicura per farlo. Grandi storie possono essere raccontate anche molto più vicino a casa soprattutto da noi in Italia. Basti pensare ai flussi migratori, agli sbarchi sulle nostre coste, ai centri di accoglienza con le migliaia di vite ognuna con una propria triste storia. Credo sia fondamentale imparare l’arte dello storytelling e della narrazione prima di pensare di mettere in pericolo la propria vita.